La Felicità esiste davvero?
A scuola mi domandarono cosa volessi essere da grande. Io scrissi “Essere felice”.
Mi dissero che non avevo capito il compito, e io risposi che loro non avevano capito la vita.
– John Lennon –
Che cosa la felicità?
Tutti affermano di voler raggiunger la felicità, senza chiarire a se stessi che cosa intendono per felicità.
Il filosofo, scrittore, pedagogista e musicista svizzero Jean-Jacques Rousseau affermava: “Tutti gli esseri umani vogliono essere felici; ma, per poter raggiungere una tale condizione, bisogna cominciare col capire che cosa si intende per felicità.”
In effetti ognuno di noi ha il proprio concetto di felicità, attribuisce il proprio significato a questo termine e ha una diversa percezione della stessa.
In linea generale potremmo affermare che «La felicità è un mito, una leggenda: tutti ne parlano ma pochi l’hanno davvero conosciuta, e pochissimi sono così fortunati da assaporarla a lungo…»
Il motivo principale risiede nell’idea che la felicità si trovi all’esterno di noi stessi. Mossi da questa convinzione ci sentiamo perennemente insoddisfatti, alla costante ricerca di qualcosa, vuoti e… infelici.
E se questo modo di percepire e considerare la felicità fosse sbagliato?
Gli studi scientifici dimostrano che il nostro cervello è programmato per produrre continuamente la sensazione di felicità. In ogni istante, infatti, mentre noi rincorriamo pensieri, progetti, obiettivi, il cervello sta “felicitando”, ossia si sta predisponendo a creare una condizione di pienezza e di soddisfazione, che non dipende dalle circostanze esterne e non ha “scadenza” temporale.
Questo meccanismo tende a mantenere la sensazione di piacere e di gratificazione attraverso il rilascio di endorfine e neuro-trasmettitori, in particolare la serotonina, responsabile di uno stato di benessere e felicità.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la “felicità” sembra identificarsi con la “Qualità della Vita”, che è la “percezione che ciascuna persona ha della propria posizione nella vita, nel contesto della cultura o del sistema dei valori in cui è inserito, in relazione ai propri obiettivi, aspettative, priorità, preoccupazioni”.
La filosofia ha molto disquisito sul concetto di felicità:
Platone, parlando per bocca di Socrate, sosteneva che si può essere felici solo educando il desiderio, instillato da Eros, al bene e alla bellezza, ma per far ciò il cammino è lungo ed arduo.
Solo la filosofia, a suo avviso, aiuta in questo percorso verso la Bellezza, lasciando i piaceri effimeri della vita per cercare, attraverso la virtù, il bene ultimo, “il bello in sé”. La felicità dipende
dall’uomo ed è nelle sue possibilità raggiungerla. Questo passaggio assume un’importanza epocale ed è fondamentale nel pensiero dell’antichità perché si passò da una concezione fatalistica della vita e, quindi, della felicità, dove gli Dei decidono per l’uomo che non può far nulla per opporsi alle loro decisioni, ad una concezione teleologica, per cui è l’uomo ad agire con un fine ben preciso: il raggiungimento del “bello in sé” e, di conseguenza, della felicità. La felicità in tal senso ha una dimensione esistenziale raggiungibile attraverso un percorso umano e personale e la filosofia è la via maestra per percorrere questa strada.
Se per Platone la felicità è raggiungibile ricercando il sommo bene, per Aristotele tutte le cose del mondo, mirano a raggiungere uno scopo. Il filosofo sostenne che questo fine supremo è sviluppare la facoltà che distingue l’uomo da tutte le altre creature, cioè il ragionamento, ed agire di conseguenza, coltivando la virtù, premessa indispensabile per la felicità. Felicità intesa come prosperità unita a virtù, costituita da: buona nascita, qualità e quantità di amici, ricchezza, buoni figli, una buona vecchiaia, una buona condizione fisica intesa come salute, bellezza, forza, fama, onore e fortuna. Aristotele di fatto rifiutò l’idea di Platone che la virtù sia condizione sufficiente ad assicurare il raggiungimento del fine ultimo dell’uomo; non si potrebbe essere felici qualora si possegga la virtù ma si soffra dei peggiori dei mali e delle peggiori disgrazie.
Epicuro insegnò che l’unica sorgente di felicità è il piacere, e che il piacere dovrebbe essere l’unico scopo a cui ogni azione dell’uomo dovrebbe tendere. Il filosofo, con il termine piacere, intendeva assenza di dolore e assenza di turbamento dell’anima. Una vita felice è quindi una vita di serenità profonda e duratura e non una vita volta ad inseguire piaceri fugaci ed effimeri che alla fine lasciano l’uomo più affamato di prima.
Gli Stoici negarono la complessità dell’animo umano evidenziata da Platone e Aristotele, tornando ad identificarla con la sola ragione. Obbedire alla ragione, compiendo il proprio dovere e liberandosi dalle passioni è l’unica via per la felicità.
La cultura romana considerava il concetto di felicità dal punto di vista pratico. La felicità era adorata in quanto considerata una sorta di divinità e come tale andava adulata. Essa era associata al concetto di fortuna che elargiva i sui frutti portando benessere, fertilità, ricchezza. Dal momento che era dispensata dagli Dei, si riteneva necessario ingraziarsene i favori, attraverso sacrifici e preghiere, ma, per contro ed in considerazione della volubilità degli Dei, valeva la pena di non basarsi troppo sui loro capricci e di godere di quello che una vita semplice poteva dare.
Michel de Montaigne, che pare avesse nella vita l’unico scopo di vivere per divertirsi, sostenne che ognuno deve vivere per godersi la vita senza puntare troppo in alto per evitare frustrazioni e amarezze. La natura di ognuno deve porre un limite alla ricerca della felicità, ponendo un tetto alle ambizioni in relazione ai limiti che ci si riconosce. Una visione decisamente edonistica.
Il filosofo tedesco Kant proponeva, nelle “Reflexionen”, una “regola della felicità” universalmente valida che coinciderebbe con la legge morale. Nella formulazione della legge morale, quindi, si fanno riferimenti sia al perseguimento della felicità personale che alla necessità di un’armonia di quest’ultima con i fini altrui, per cui lo stesso Kant sostenne: “cerca la tua felicità alla condizione di una volontà universalmente valida”.
La psicologia, invece, cosa intende per felicità?
Freud, il padre della psicanalisi, riteneva scontato che “L’uomo civile ha scambiato una parte delle sue possibilità di felicità per un po’ di sicurezza”. Per Freud la felicità ha due facce: una positiva ed una negativa; da un lato l’assenza del dolore e del dispiacere, dall’altro l’accoglimento di sentimenti intensi di piacere. Nella sua accezione più stretta il termine “felicità” viene però riferito solo al secondo aspetto. Sostiene però Freud che il principio di piacere stabilisce lo scopo dell’esistenza umana. Questo principio domina il funzionamento dell’apparato psichico fin dall’inizio; non può sussistere dubbio sulla sua efficacia, eppure il suo programma è in conflitto con il mondo intero, tanto con il macrocosmo quanto con il microcosmo ed è assolutamente irrealizzabile perché tutti gli ordinamenti si oppongono ad esso, tanto che si può affermare che nel piano della Creazione non è inclusa la “felicità dell’uomo”.
Jung, invece, definiva la felicità come un processo di “individuazione”, che coinciderebbe con la consapevolezza per l’uomo che ogni suo gesto, ogni sofferenza, ogni lotta ed ogni errore sono momenti indispensabili del proprio processo conoscitivo.
Più di recente lo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi, ha descritto lo stato di flow, come uno stato d’animo in cui l’uomo è completamente assorbito dalla sua occupazione, tanto da trascurare il mondo che lo circonda e persino se stesso. La felicità, a suo avviso, non è dovuta a cause fortuite ma è soggetta alla volontà dell’individuo. E’ proprio la volontà, intenzionalmente diretta a raggiungere degli scopi e delle mete precise che provocherebbe quello stato d’animo descritto come flow. La felicità è raggiungibile, secondo l’autore, solo attraverso il coraggio di fare delle scelte e di porsi delle sfide, attraverso un flusso di consapevolezza. La felicità non è quindi una condizione stabile ma uno stato fluido di consapevolezza su dove si è e dove si sta andando.
Secondo Paolo Crepet si tende a confondere la felicità con qualcosa che definisce “gioia effimera”, che, invece, non ha nulla a che vedere con la felicità. Il concetto di felicità è molto più complesso ed ha a che vedere con una visione della vita poco materiale, ma, piuttosto, sentimentale. Se si accettasse il concetto “materiale”, per essere felici sarebbe sufficiente comprare un bel vestito o l’ultimo modello di smartphone. Questo, però, è un surrogato della felicità alla stessa stregua di considerare amicizia vera quella su Facebook. Per lo psicologo, in definitiva, la felicità è una ricerca. Non è avere qualcosa, e nemmeno essere felici in senso materiale, semmai è “tentare di esserlo tenendo presente il fatto che, nel momento stesso in cui ci si riesce, si è già cessato di esserlo”. La felicità è dunque una ricerca continua, un anelito, un processo in continuo divenire, è il viaggio non la meta.
E secondo la religione, come possiamo raggiungere la felicità?
Per i cristiani, come si è detto, la felicità che si può provare in vita è incompleta. La vera felicità viene fatta coincidere con la beatitudine e non è quindi di questo mondo. In questa prospettiva appare perfettamente logico l’atteggiamento di tanti martiri cristiani che affrontarono la morte con il sorriso sulle labbra desiderando il martirio. La sofferenza era una via di redenzione che spalancava la porte dell’eterna beatitudine.
L’induismo considera che la condizione dell’uomo su questa terra è strettamente connessa alla sofferenza. La morte, il dolore, la vecchiaia, la sofferenza appartengono a questa vita, in quanto caratteristiche dell’essere uomo. L’unica soluzione per liberarsi dal dolore e dalla sofferenza consiste nell’interrompere il ciclo delle morti e delle rinascite. L’anima viene liberata e può riunirsi al divino, tornando alla condizione originaria.
L’idea di base del buddismo è che la vita è sofferenza. Malattia, vecchiaia e morte segnano il percorso di vita dell’essere umano, che è destinato a perdere le cose a cui ci si lega. Tutto è corruttibile dal tempo: le esperienze e le persone care, sono un giorno destinate a svanire.
Per il taoismo la felicità starebbe nel raggiungimento dell’equilibrio, nella conciliazione degli opposti, nell’esercizio della semplicità della compassione e della pazienza.
La più recente tra le grandi religioni, quella dell’Islam, che si diffuse a partire dal VI secolo d.C. per opera del profeta Maometto, sostiene che il credente deve solo affidarsi completamente al volere di Dio, tendere a Lui in una fusione mistica che sola può riempire di senso la vita.
Questo ultimo atteggiamento è, di fatto, trasversale a tutte le religioni: si può realizzare la felicità solo affidandosi completamente a Dio. La felicità potrà essere realizzata in questo mondo, o nell’Aldilà, o dissolvendo il ciclo delle morti e rinascite. In ogni caso, solo il contatto con il divino può rendere l’uomo felice.
Dopo aver brevemente percorso la storia, con i vari pensieri che hanno tentato di chiarire il concetto di felicità e come poterla raggiungere, vediamo oggi, nella società “moderna”, cosa facciamo nel tentativo di raggiungere tale stato.
La società e il mercato bombardano i cittadini con prodotti che dovrebbero “rendere felici” e, allo stesso tempo, realizzano i presupposti perché tali oggetti diventino rapidamente obsoleti, creando nuovi desideri da esaudire per continuare ad essere felici.
Inoltre è davvero possibile sentirsi felici in una società nella quale il maggior numero delle persone versa in condizioni talmente disperate che, secondo i parametri occidentali, non possono non essere definiti che infelici?
È davvero possibile chiamare “felicità” una vita che si acquista a prezzo dell’infelicità altrui?
Allora, come mai nonostante la ricerca incessante e le numerose disquisizioni filosofiche, religiose e psicologiche, la felicità sembra ancora così difficile da raggiungere?
Vediamone alcuni:
- Negatività, paure e preoccupazioni. Uno dei principali motivi risiede nella tendenza che molte persone hanno di focalizzare l’attenzione su pensieri negativi, a volte catastrofici, che generano ansie e preoccupazioni.
- La felicità è rara da raggiungere. Si tratta di un mondo talmente ideale, da essere inesistente. Ma se la felicità diventa un’utopia, l’infelicità diventa la norma, che si sopporta magari in vista di un fine superiore. Questa convinzione ci porta a distrarci e a non vedere e considerare tutti i piccoli momenti e motivi di felicità che sono già presenti nella nostra quotidianità. Guidati da questa idea tendiamo a dare per scontato proprio quelle cose, persone e situazioni che in fondo possiamo già considerare motivo di felicità.
- Avere. Ostentare. Apparire. Un altro motivo è la convinzione, che la nostra società e i social hanno contribuito a creare, che per essere felici è necessario possedere un buon lavoro, una bella macchina, la casa dei propri sogni e cosi via. Questo ci porta ad essere costantemente alla ricerca di qualcosa, nell’incessante attesa che qualcosa si realizzi o cambi nella nostra vita.
- La felicità bisogna guadagnarsela, conquistarla, meritarsela. In fondo siamo convinti che, come tutti i premi, anche la felicità dobbiamo meritarcela. Per esserne degni dobbiamo sottoporci a un duro lavoro, a un grande impegno, a rinunce e sacrifici. Occorre migliorare se stessi, smussare difetti e limiti, raggiungere obiettivi professionali. Bisogna sforzarsi, lottare con noi stessi e col mondo, ottenere risultati e successi significativi.
Quali strategia possiamo dunque mettere in atto per sentirci più felici?
Se vogliamo generare in noi stati di felicità, dobbiamo partire dall’assumere un atteggiamento “giusto”, preferendo pensieri, parole ed atteggiamenti che stimolando in noi quelle emozioni che suscitino stati d’animo di fiducia, possibilità e tranquillità.
Un altro modo è quello di tenere un “diario della gratitudine” nel quale scriveremo, preferibilmente la sera prima di andare a dormire, tutto ciò che è già presente nella nostra vita, sopratutto ciò che consideriamo scontato, ma che così scontato, lo sappiamo, non è.
Ricorda anche di restare concentrat* sul momento presente, sui quelle piccole azioni che puoi compiere giornalmente e quelle piccole attenzioni che puoi riservare a te stess* e agli altri, senza vivere costantemente nel passato o proiettato nel futuro.
Sono le convinzioni che abbiamo sul significato di felicità che condizionano la nostra percezione e di conseguenza le nostre emozioni e le nostre azioni.
Non c’è da fare alcuno sforzo pratico o morale, non c’è da meritarsi la felicità: c’è da lasciarle spazio dentro di noi.
Ora tocca a te.
Ti aspetto al prossimo articolo!
Ricorda: Change your life. Fai della tua vita il tuo capolavoro.
(Bibliografia: Diario di incontri sul campo. Riza Psicosomatica. “Breve discorso sulla felicità” di Giuseppe Motta.).